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lunedì 16 settembre 2024

Uova alla flamenca- Huevos alla flamenca

Le huevos alla flamenca sono un secondo piatto saporito e sfizioso tipico dell’Andalusia, una splendida regione spagnola.
Si tratta di una ricetta facile e che prevede l’uso di ingredienti semplici come le uova, la salsa di pomodoro, peperoni, piselli, patate, cipolla, aglio e il famoso prosciutto Jamòn serrano e il salame chorizo.
Il jamón serrano (letteralmente "prosciutto di montagna") è un alimento ottenuto dalla salatura e seccatura all'aria dagli arti posteriori del maiale di razza bianca.
Anche popolarmente noto come "Jamón del país" o "Jamón curado", questo stesso prodotto riceve anche il nome di paleta o paletilla quando si ottiene dagli arti anteriori. La denominazione jamón serrano è riconosciuta come specialità tradizionale garantita (STG)
In Spagna, il termine è comunemente usato come sinonimo di prosciutto crudo, mentre per il prosciutto cotto si usa abitualmente la denominazione "Jamón de York".
Il termine spagnolo chorizo indica un salume tradizionale fatto con le migliori carni magre selezionate dai pezzi più nobili del maiale alimentato con le ghiande.
Viene stagionato in essiccatoi naturali per un minimo di tre mesi e mezzo.
Caratteristica del chorizo è che la carne di maiale non è macinata ma tritata in modo grossolano e condita, oltre al sale, con paprica dolce o piccante.
È proprio la paprica a dare al salame il caratteristico colore rosso e sapore.
Il chorizo vela ha una forma sottile e allungata ed è condito con paprica piccante. Il morcón de chorizo ha una forma tozza e grossa, è insaccato nell'intestino cieco ed è condito con aglio e paprica dolce.
Se non trovate il jamòn serrano o il chorizo, utilizzate dell’ottimo prosciutto crudo e del salame piccante.

 
 


LE IMMAGINI E I TESTI PUBBLICATI IN QUESTO SITO SONO DI PROPRIETA’ DELL’AUTORE E SONO PROTETTI DALLA LEGGE SUL DIRITTO D’AUTORE N. 633/1941 E SUCCESSIVE MODIFICHE. COPYRIGHT © 2010-2050. TUTTI I DIRITTI RISERVATI A IL POMODORO ROSSO DI MARIA ANTONIETTA GRASSI. VIETATA LA RIPRODUZIONE, ANCHE PARZIALE, DI TESTI O FOTO, SENZA AUTORIZZAZIONE.


Ingredienti per 4 persone:

4 uova di gallina
250 gr di piselli già sgranati
1 peperone grande
250 gr di patate
1 cipolla bianca piccola
2 spicchi d’aglio
4 fette di jamòn serrano (prosciutto crudo spagnolo)
 8 fette di chorizo (salame piccante)
400 gr di passata di pomodoro
Olio extravergine d’oliva q.b.
Sale q.b.
 
Procedimento
 
Pelate le patate, asciugatele e tagliatele a tocchetti.
Pulite la cipolla, l’aglio e tritateli.
Pulite il peperone, tagliatelo prima a falde e poi a pezzi.
Scaldate tre cucchiai d’olio in una padella e fate friggere leggermente le patate.
Una volta rosolate, toglietele dalla padella e tenetele da parte.
Nella stessa padella in cui avete fritto le patate aggiungete il trito di aglio e cipolla e fate dorare per qualche minuto.
Aggiungete la passata di pomodoro, i piselli, e fate cuocere per dieci minuti.
Trascorso il tempo unite i pezzi del peperone e continuate la cottura a fuoco lento per altri quindici minuti poi unite le patate fritte e salate.
Mescolate delicatamente il tutto e lasciate cuocere per altri dieci minuti, girando di tanto in tanto.
Se il sugo dovesse asciugarsi troppo, aggiungete un pochino di acqua calda.
Una volta cotto, versate il sugo in una terrina da forno o in quattro individuali, se preferite, rompete le uova su ciascuna e appoggiate di lato una fetta di prosciutto e dall’altro due di salame.
Infornate (forno statico e già a temperatura di 200°C) per 7/8 minuti fino a quando gli albumi delle uova saranno cotti e il tuorlo ancora morbido.
Servite subito con fette di pane casereccio grigliate.
 
 
 
 
 
 

mercoledì 19 giugno 2024

Spaghetti con acciughe sott'olio e bottarga di muggine

Gusto salato, profumo di mare e un colore che va dall’oro all’ambra fanno della Bottarga di muggine una raffinata specialità detta anche “caviale sardo”, ideale da gustare nei piatti di mare, in abbinamento agli ottimi vini bianchi dell’isola. Una tradizione radicata in Sardegna da 3000 anni e famosa ora in tutto il mondo, che arricchisce antipasti e primi piatti, rende più preziose le insalate e stimola la fantasia degli appassionati di cucina gourmet. La più pregiata è la bottarga prodotta dai muggini pescati nello Stagno di Cabras (Oristano), che può costare fino a 250 euro al chilogrammo.     
La bottarga di muggine è un alimento ottenuto dalle uova salate ed essiccate per ottenere baffe dorate dall’intenso sapore di mare. Viene consumata a fettine, più o meno sottili a seconda delle preferenze, oppure macinata, da spolverare su crostini o su primi piatti. Il suo sapore deciso non incontra il gusto di tutti; chi se ne innamora, però, ne rimane un fedele appassionato. Non è difficile capirne il motivo: un misto di dolcezza, sapidità e cremosità rende questa prelibatezza inimitabile tra gli altri prodotti del mare.
Si dice che la tradizione della bottarga sia approdata in Sardegna circa 3000 anni fa, ad opera dei Fenici, primi colonizzatori dell’isola. Da allora, le aree di maggiore produzione sono quelle più vicine ai loro insediamenti lungo le coste (Nora, Cagliari, Tharros e il Sulcis). Il nome “Bottarga” deriverebbe invece da battarikh, termine utilizzato dagli arabi per indicare questa delizia tanto preziosa che, fino a poco tempo fa, era difficilmente reperibile e riservata a doni regali e occasioni speciali.
Oggi, grazie all’opera dei produttori e al miglioramento delle tecniche di pesca, il mercato della Bottarga di muggine è ben più florido e questo prodotto viene esportato in tutto il mondo.
Tratto da Janas Food
 

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Ingredienti per 4 persone:

320 gr di spaghetti
40 gr di burro
15 filetti d’acciuga sott’olio
Bottarga di Muggine stagionata grattugiata q.b.
4 rametti di prezzemolo
 
Procedimento
 
Lavate e sgrondate il prezzemolo poi tritatelo grossolanamente.
Cuocete gli spaghetti in abbondante acqua bollente NON salata.
Nel frattempo, in una capiente padella scaldate il burro e unite le acciughe.
Fatele sciogliere lentamente per un paio di minuti, rimestando spesso.
Unite un mestolo di acqua di cottura della pasta.
Scolate gli spaghetti molto al dente, versateli nella padella con le acciughe e ultimate la cottura facendoli saltare.
Impiattate, spolverizzare con il prezzemolo e la bottarga  e servite.
 
 
 
 
 
 

venerdì 24 maggio 2024

Malfatti di spinaci

I Malfatti sono un primo piatto tradizionale della cucina lombarda.
L'impasto viene amalgamato e arrotolato in piccoli cilindri della lunghezza di circa 4/5 cm. Sistemati su vassoi, vengono quindi lessati e conditi con burro, salvia o pomodoro.
Gli spinaci sono un ortaggio a foglia verde originario della Persia.
La loro raccolta avviene da ottobre a maggio ma possiamo trovarli surgelati anche negli altri mesi dell’anno.
Sono ricchi di fibre, sali minerali, vitamina A e antiossidanti e possiedono poche calorie.
Contengono molto ferro, tuttavia, circa il 95% di esso è inutilizzabile come nutriente in quanto presente nella forma non-eme, il cui assorbimento è limitato rispetto al ferro in forma eme, presente, ad esempio, nella carne e negli alimenti di origine animale.
Inoltre, negli spinaci, come in molti vegetali, vi sono alcuni nutrienti che possono ostacolare ulteriormente l’assorbimento di ferro, come gli ossalati ed i fitati.
La presenza di ossalati sconsiglia il consumo eccessivo a chi soffre di calcoli renali in quanto ne favorisce la formazione; tuttavia per neutralizzare gli ossalati basta consumare insieme agli spinaci del formaggio.
Da assumere con cautela anche in caso di terapia anticoagulante, in quanto contenenti la vitamina K1 che può interferire con i farmaci fluidificanti.

 
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Ingredienti per 6 persone:
 
1 kg di spinaci
200 gr di ricotta vaccina freschissima
250 gr di farina
130 gr di burro
120 gr di Parmigiano Reggiano grattugiato
1 uovo
Mezza cipolla bianca
1 pizzico di noce moscata
7 foglie di salvia
Sale e pepe q.b.
 
Procedimento
 
Pulite gli spinaci e lavateli senza sgrondarli.
Cuoceteli in una pentola per tre minuti con la sola acqua rimasta aderente.
Girateli continuamente con due cucchiai.
Scolateli bene e lasciateli intiepidire, strizzateli con le mani e tritateli.
Sciogliete 30 gr di burro in una padella e fate stufare la cipolla tagliata finemente, aggiungete gli spinaci, il sale, la noce moscata, il pepe e lasciate cuocere ancora per un paio di minuti.
Togliete dal fuoco e fate intiepidire.
Versate in una ciotola capiente gli spinaci, unite la ricotta ben scolata, l’uovo e due terzi del Parmigiano e mescolate.
Aggiungete mescolando, poco alla volta, 200 gr di farina setacciata.
Lavorate bene l’impasto per renderlo omogeneo e formate, con le mani inumidite di acqua, dei cilidretti di circa 4 o 5 cm.
Passateli nella farina rimasta e rivestiteli uniformemente.
Portate a bollore 4 litri di acqua salata.
In una padella capace sciogliete il burro rimasto, unite le foglie di salvia e fate rosolare fino a quando prenderà colore.
Tuffate i malfatti nell’acqua in ebollizione, fate riprendere il bollore e cuoceteli per pochi minuti.
Raccoglieteli, con un mestolo forato, mano mano che vengono a galla e versateli nel burro fuso, mescolate.
Serviteli cosparsi con il Parmigiano rimasto.
 

lunedì 22 aprile 2024

Scarpaccia salata di Camaiore

La scarpaccia è un piatto tradizionale toscano diffuso soprattutto in provincia di Lucca. Ne esistono numerose varianti, di cui le principali sono la scarpaccia viareggina, dolce, e la scarpaccia camaiorese, salata.

Solitamente la sua preparazione avveniva in primavera usando zucchine piccole e appena raccolte.

L’altezza della preparazione non deve superare un centimetro.

Tradizionalmente era cotta dai fornai alla fine della giornata, sfruttando il calore residuo del forno appena spento.

Sull’etimologia del nome ci sono diverse versioni, una afferma che deriva "dal fatto che, una volta cotta, ha lo spessore d’una suola di scarpa vecchia: una scarpaccia".

Un’altra sostiene che è legato al fatto di essere un piatto povero, di poco conto, come una vecchia scarpa.

Infine, la leggenda narra che Castruccio Castracani, signore e duca di Lucca, mentre percorreva la valle del Serchio nella zona di Colognora e castello di Val di Roggi, si trovò a corto di viveri e chiese ai contadini di rifornirli. Questi portarono zucchine, farina, uova e latte che, amalgamate furono poi cotte.

Era nata la Scarpaccia.



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Ingredienti per 4 persone

400 gr di zucchine

2 cipolle piccole
150 gr di farina
30 gr di burro
2 uova
100 ml di latte
5 foglie di basilico
3 rametti di timo
Olio extravergine d’oliva q.b.
Sale e pepe q.b. 

Procedimento 

Lavate gli zucchini, pelate la cipolla, tagliate tutto a fettine sottili e mettete  in una scodella per due ore in modo che rilascino l'acqua di vegetazione.

In una ciotola sbattete le uova e aggiungete, poco alla volta, la farina alternandola con il latte, infine unite il sale, il pepe, gli aghetti di timo e quattro cucchiai d'olio.
Amalgamate gli ingredienti fino a ottenere una pastella liscia e senza grumi.





Unite le zucchine, le cipolle e le foglie spezzettate del basilico.



Imburrate una teglia e versate il composto livellandolo in maniera che sia alto un centimetro.
Irrorate con un pochino d’olio e mettete in forno già caldo a 180°C.
Lasciate cuocere per circa un’ora fino a quando sarà croccante.
Sfornate e servite.

 

 

 

 

 

 

 

domenica 18 febbraio 2024

Coda alla vaccinara

La coda alla vaccinara è una ricetta tipica romana molto amata e conosciuta che, purtroppo, è considerata da sempre l’emblema di una particolare romanità, greve e caciarona.
In realtà si tratta di un piatto regale che ha come unico neo la preparazione che è piuttosto difficile e si rischia, se non fatta a dovere, di trasformarlo in un lesso. Figlia della cucina “povera” la ricetta originale era un piatto ricchissimo a cui spesso venivano aggiunti anche i “gaffi”, cioè le guance del bovino.
La preparazione originale nasce verso il 1887 nel quartiere romano di Testaccio, nella zona antistante il mattatoio e precisamente nel “Ristorante Checchino”.
Una volta macellate le carni e confezionati i primi quattro quarti destinati alle tavole dei nobili, del clero, dei soldati e della borghesia, il quinto quarto (ovvero tutti gli scarti e le frattaglie) veniva consegnato ai macellai e vaccinari.
Tutt'oggi al ristornate, ancora gestito dalla stessa famiglia, si può assaggiare la ricetta originale della coda alla vaccinara.

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Ingredienti per 4 persone:

2 kg di coda di manzo già tagliata

100 gr di lardo
1 cipolla
1 carota
2 spicchi d’aglio
1 bicchiere di vino bianco secco
1 kg di pomodori (o 400 gr di  pelati)
1 sedano bianco piccolo (solo le coste, niente foglie)
2 cucchiai di pinoli
30 gr di uva passa
1 cucchiaino di cioccolato fondente amaro grattugiato
2 chiodi di garofano
1 pizzico di noce moscata
Olio extravergine d’oliva q.b.
Sale q.b.
Pepe q.b.

Procedimento

Lavate bene la coda e asciugatela.

Tritate il lardo in modo da formare un pesto.
Pulite e tritate la cipolla e l’aglio.
Pelate la carota e tagliatela a tocchetti.
Pelati i pomodori, eliminate i semi e tagliateli a pezzetti.
Mettete a bagno l’uva passa.
In un ampio tegame dal fondo spesso scaldate un cucchiaio d’olio e fate soffriggere il pesto di lardo, unite la coda e fatela rosolare da tutti i lati, aggiungete la cipolla tritata, l’aglio, i cubetti di carota, i chiodi di garofano, la noce moscata, sale e pepe.
Dopo qualche minuto, sfumate con il vino bianco e coprite.
Lasciate cuocere per un quarto d’ora poi unite i pomodori.
Proseguite la cottura ancora per un’ora quindi ricoprite tutto con dell’acqua calda, coperchiate e lasciate cuocere a fuoco bassissimo finché la carne non si stacca dall’osso, ci vorranno dalle quattro alle cinque ore.
Nel frattempo, lavate le coste di sedano e togliete i fili
Lessateli per una decina di minuti, scolateli e tagliateli a tocchetti.
In un altro recipiente versate un po’ del sugo della coda, unitevi il sedano, i pinoli, l’uva passa ben strizzata, e la cioccolata.
Lasciate insaporire poi versate questa salsa sulla coda al momento di servire.
Ovviamente tutto caldo.

 

domenica 28 gennaio 2024

Pinsa romana

Si ha notizia della pizza romana fin dai tempi dell’antica Roma. Non era la pizza come la intendiamo noi oggi, ma una sorta di focaccia, in genere di farina di farro perché il grano era raro e costoso.
Per stenderla e dare la caratteristica forma ovale veniva schiacciata e tirata con le mani (pinsata) e a questo deve il suo nome di “pinsa”.
Era un piatto povero, condito prevalentemente con i fichi, perché all’epoca erano abbondanti e costavano poco.
Ancora oggi a Roma, per indicare qualcosa di ricercato e ricco, si dice: ”Mica pizza e fichi”, proprio per porre l’accento sul fatto che fosse un piatto povero e contadino.
Oggi il suo nome è stato prevalentemente sostituito con “pizza romana”, bassa e scrocchiarella e spesso è preparata con aggiunta di farina di riso e di soia seguendo le mode attuali.
Personalmente apprezzo la ricetta originale con la farina di grano con un alto livello di glutine (W260-350), che consente una lunga lievitazione (dalle 12 alle 48 ore) e un’idratazione al 75% che si avvicina di più alla ricetta originale.
Il condimento può variare in un numero infinito di varianti e secondo i gusti personali.

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Ingredienti per 5 pinse :

Per l’impasto

500 g di farina 0 (W260 -350)
375 g di acqua fredda
2 gr di lievito di birra fresco
2 cucchiai di olio extravergine d’oliva
10 g di sale fino (possibilmente integrale)

Per condire

300 g di passata di pomodori
2 mozzarelle
2 etti di prosciutto cotto
3 carciofi
Origano q.b.
Olio extravergine d’oliva q.b.
Sale q.b.

Procedimento


Setacciate la farina in una ciotola capiente, sciogliete il lievito nell’acqua e unitelo alla farina. Amalgamate bene fino a ottenere un impasto omogeneo.
Versate tutto su di una spianatoia infarinata o sul tavolo, unite due cucchiai d’olio, il sale sciolto in un pochino d’acqua e continuate a impastare fino a quando l’impasto diventerà elastico.
Formate una palla ripiegando i bordi all'interno, ungete una ciotola e depositatecela.


Coprite con della pellicola e uno strofinaccio da cucina e lasciate lievitare per un’ora nel forno spento o in un luogo tiepido e privo di correnti d’aria.
Trascorso il tempo, riprendete l’impasto, rimettetelo sulla spianatoia infarinata, dategli la forma di un panetto rettangolare, poi procedete alla piegatura come per preparare la pasta sfoglia.
Stendete il panetto, ripiegate verso il centro i due lati corti, lasciate riposare, poi girate di 90° appiattite leggermente e ripiegate i lati.





Quest’operazione consentirà d’inglobare molta aria, il che la renderà “sofficiosa” e ben alveolata.
Ripete l’operazione dopo venti minuti.
Riformate una palla, ungetela leggermente e rimettetela nella ciotola. Coprite con la pellicola e ponete in frigo per 16/20 ore. 
Toglietela dal frigo, dividete l’impasto in  cinque palline rotonde e compatte (pirlatura),  e mettetele a lievitare per un'ora.


Trascorso il tempo, infarinate il piano di lavoro, deponeteci le palline e allargatele bene con i polpastrelli fino a ottenere una forma ovale di circa 1 cm e mezzo di spessore.
Oliate abbondantemente una teglia o una leccarda, depositateci delicatamente le pinse, coprite con un telo e continuate la lievitazione per altre tre ore.


Nel frattempo, tagliate le mozzarelle e mettetele in frigo a scolare in uno scolapasta per un’ora poi, tiratele fuori e lasciatele a temperatura ambiente per un’ora.
Pulite i carciofi eliminando le foglie più dure, divideteli in quarti e fateli cuocere in una padella con un filo d’olio, del sale e un pochino d’acqua.
Accendete il forno (statico a 230°)
Stendete su di ogni pinsa la passata di pomodoro condita con olio, sale e origano.
Quando il forno avrà raggiunto la giusta temperatura infornate per 10 minuti, estraetele dal forno e distribuite su ognuna la mozzarella, i carciofi e il prosciutto .
Infornate nuovamente per 5  minuti, sfornate e servite subito.































venerdì 15 dicembre 2023

Carciofi alla giudìa

I carciofi alla giudía (giudea) sono un tipico piatto della cucina ebraico-romanesca particolarmente amato a Roma e in tutto il Lazio. La ricetta originale consiste, fondamentalmente, in una frittura particolare di carciofi che devono essere rigorosamente i carciofi cimaroli (detti anche mammole) che sono i migliori della varietà "romanesco" coltivata fra Ladispoli e Civitavecchia.
Questo tipo di carciofo risulta essere tondo, particolarmente tenero e, soprattutto, privo di spine. Grazie a quest'ultima caratteristica i carciofi alla giudía, una volta cotti, possono essere consumati integralmente senza scartare nulla.
Hanno un’origine molto antica, visto che vengono citati anche in ricettari e memorie del XVI secolo. Si tratta infatti di un piatto di derivazione romana, nato più precisamente nel ghetto ebraico della capitale nel 1555.
Durante quell’anno, il Papa Paolo IV impose pesanti limitazioni e obblighi nei confronti di tutti gli ebrei, tra cui il divieto di possedere beni immobili e l’obbligo di portare un distintivo giallo, come una sorta di segno di riconoscimento. Di conseguenza, tutte le persone che professavano la religione ebraica si trovarono costrette a essere identificate a colpo d’occhio e a vivere separate dagli altri, ritrovandosi così a concentrarsi tutti in una stessa zona.
È così che nasce il ghetto ebreo di Roma, ed è proprio in questo luogo che si sviluppò, frittura dopo frittura, la ricetta dei carciofi alla giudìa.
Questa è la teoria più accreditata per dare un’origine a questo piatto, ma in realtà non è sicuro che sia nato proprio in queste circostanze. Alcuni sostengono, invece, che vengono chiamati “alla giudìa” perché erano uno dei piatti presenti sulle tavole imbandite dalle massaie ebraiche alla fine dello YomKippur, il giorno della “festa dell’espiazione ebraica” durante cui toccare cibo è severamente proibito.
Altri ancora credono, invece, che questo sia uno dei piatti tipici che si mettono a tavola per festeggiare la Pasqua ebraica, chiamata più propriamente Pesach. Questa teoria è più accreditata di quella che vuole i carciofi alla giudea come piatto tipico del giorno dell’espiazione, perché avrebbe più senso a livello di stagionalità. Il Pesach, infatti, cade in primavera, momento dell’anno in cui si è in pieno periodo per la raccolta dei carciofi, che sono “di stagione” tra marzo e giugno. Il giorno dell’espiazione, invece, è una ricorrenza che cade in autunno, più precisamente tra settembre e ottobre. E in quel periodo dell’anno, i carciofi non ci sono più.
Un’ultima teoria, invece, sostiene che il termine “carciofi alla giudia” è nato a causa dei continui spostamenti delle comunità ebraiche, che di luogo in luogo adattavano la propria cucina in base agli ingredienti e alle materie prime che trovavano, ma sempre modellandola secondo i principi Kosher che distinguono ciò che si può da ciò che non si può mangiare. Di base gli ebrei erano un popolo nomade, e ovunque sono arrivati hanno integrato gli ingredienti del posto alla loro cucina: secondo questo ideale, è ciò che è successo con i carciofi fritti.
Considerando che la frittura è da sempre parte fondamentale della cucina ebraica, poi, non è da escludere che i carciofi alla giudia vengano chiamati così semplicemente perché vanno fritti.

Fonte: Emotions

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Ingredienti per 4 persone:

8 carciofi romani (mammole) di taglia media

1 limone
Olio extravergine q.b.
Sale e pepe q.b.

Procedimento

Spremete il limone in una ciotola piena d’acqua, private i carciofi delle brattee (foglie) esterne fino a scoprire quelle tenere, spuntateli e accorciate i gambi, lasciandone 3 o 4 cm e raschiateli leggermente, immergeteli via via nell’acqua acidulata.

Dopo dieci minuti, prendeteli per il gambo e premeteli capovolti sul piano di lavoro per facilitare la fuoriuscita dell’acqua dagli interstizi: poggiateli, sempre capovolti, su di un canovaccio e lasciateli sgocciolare dieci minuti.
Conditeli con sale e pepe, accomodateli capovolti, il gambo in alto, in una teglia profonda e versate l’olio (tradizionalmente d’oliva ma a discrezione anche da frittura) sin quasi a coprirli quasi del tutto.
Accendete il fuoco, mantenete un calore moderato per dieci minuti, dopodiché alzate la fiamma al massimo e, con l’ausilio di una spatola, con cautela, comprimete i carciofi sul fondo del recipiente, in modo che prendano la forma di un largo fiore schiacciato con le foglie incurvate all’esterno.
La cottura durerà circa 30 minuti, quindi prelevateli con la spatola forata, sgocciolateli e depositateli su di una carta assorbente da cucina: serviteli caldissimi dopo aver verificato sale e pepe.  

 

 

sabato 28 ottobre 2023

Pan de muerto messicano

Il pan de muerto (il pane del morto), come dice il suo nome, è un dolce tipico della trazione culinaria messicana che si prepara in occasione della festività dei morti.
Si tratta di una pagnotta dolce, aromatizzata con le bucce d’arancia o con i semi di anice, sofficissima e simile a una brioche.
Solitamente viene preparato qualche giorno prima della festività e consumato davanti ad un altare, realizzato per onorare i defunti, insieme con altri cibi che amavano.
Nella cultura messicana la morte non è vista come la fine ma come il proseguimento naturale in una vita ultraterrena e per questo motivo è festeggiata con allegria.
Non è difficile prepararlo e richiede semplici ingredienti come farina, burro, uova, zucchero, latte, scorza d’arancia o semi di anice.
Con le dosi che vi ho fornito, potete preparare tre pani di circa tre etti l’uno, se li preferite, più piccoli basta dividere l’impasto per più pani.
Potete velocizzare i tempi usando una planetaria anziché impastando a mano.

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Ingredienti per 4 pani medi

500 gr di farina 00

100 gr di zucchero + quello per la finitura
3 uova intere
3 tuorli
150 gr di burro a tocchetti e a temperatura ambiente
150 ml di latte tiepido (mezza tazza)
3 cucchiai di acqua di rose
2 arance bio
7 gr di lievito di birra secco
10 gr di sale fino (1 cucchiaio)

Procedimento

Innanzitutto, preparate il lievitino.

In una ciotola mettete il lievito sul fondo e versateci sopra tre cucchiai colmi di farina, un cucchiaio di zucchero e tutto il latte tiepido (36°C), versandolo a poco a poco e mescolando per evitare la formazione di grumi.
Dopo aver amalgamato il tutto, coprite con una pellicola e mettete a lievitare in un luogo caldo e lontano da correnti d’aria.
Nel frattempo, lavate bene le arance e grattugiate la buccia avendo cura di non grattugiare la parte bianca (albedo) che renderebbe il pane amaro. Coprite con la pellicola e mettete da parte.
Su di un piano di lavoro, versate la farina rimanente e distribuite intorno ad essa tutto lo zucchero e il sale; con il fondo della ciotola create un buco al centro della montagnola di farina e deponeteci il lievitino.
Nel lievitino, incorporate le uova e i tuorli (uno per volta) e mescolate delicatamente con le mani inglobando un pochino della farina circostante.
Quando avrete inglobato tutte le uova continuate a prendere la farina e incorporate tutto impastando, compreso lo zucchero e il sale.
A questo punto inserite i tocchetti di burro, pochi alla volta.
Una volta integrato completamente il burro, unite l’acqua di rose e le bucce grattugiate delle arance.
Vi troverete un impasto molto morbido, ma non aggiungete altra farina o vi troverete un pane poco soffice, continuate invece a impastare fino a quando otterrete un impasto più solido e omogeneo.
Lavoratelo stendendolo più volte fino a quando sarà più compatto, ma sempre molto morbido e si staccherà bene sia dal piano di lavoro sia dalle mani.
Mettetelo in ciotola leggermente unta con un pochino d’olio, pennellate con lo stesso anche l’impasto per evitare che asciughi troppo e coprite con la pellicola.
Mettetelo a lievitare, sempre in luogo caldo e lontano da correnti d’aria, fino al raddoppio (di solito ci vogliono due ore ma dipende dalla temperatura dell’ambiente in cui si trova).
Trascorso il tempo distribuite, sul piano di lavoro, un po’ di farina e deponeteci delicatamente l’impasto lievitato.
Schiacciatelo leggermente per eliminare l’aria e dategli una forma cilindrica di circa 30/23 cm di lunghezza e 13-15 di larghezza.
Tagliate la forma in quattro parti, tre uguali e la quarta della metà di una delle altre (servirà per fare “le ossa” ossia la guarnizione).
Infarinate nuovamente il piano di lavoro, prendete uno dei tre pezzi d’impasto, fatelo girare con le mani (pirlatura) ridandogli una forma tonda tenendo le punte sotto l’impasto, trasferite su di una teglia rivestita da carta da forno e schiacciatelo leggermente.
Eseguite le stesse operazioni anche con gli altri due pezzi distanziandoli nella teglia affinché non si attacchino tra di loro durante la lievitazione e la cottura.
Prepariamo ora “le ossa”.
Prendete il pezzo d’impasto rimasto, aggiungetegli due cucchiai di farina perché deve essere più corposo rispetto ai pani, impastatelo per inglobare la farina poi ricavate nove cilindretti.
Prendete un cilindretto arrotolatelo come fosse un grissino, poi premetelo con il dito indice al centro e fatelo rotolare avanti e indietro finché non si schiaccia completamente. Una volta diviso (ma non staccato) in due, fate la stessa cosa ai lati usando i due indici e allungandolo leggermente.
Ripetete l’operazione con altri cinque cilindretti e avrete ottenuto “le ossa”, con i tre pezzetti d’impasto rimasto create tre palline per formare “la testa”.
Spennellate i pani con dell’acqua, formando una croce nel punto dove andranno poste le ossa affinché aderiscano bene.
Posizionatene, schiacciandole leggermente, due per ogni pane, formando appunto delle croci e ponete sopra di ognuna di essa la pallina di pasta (testa) sempre dopo aver spennellato con dell’acqua.
Una volta decorati i pani metteteli ancora a lievitare fino al raddoppio del volume.
Infornate nel forno preriscaldato a 170°c per 20/30 minuti.
Quando saranno ben dorati, estraeteli dal forno e metteteli a raffreddare su di una gratella.
Una volta che saranno raffreddati, spennellateli con del burro fuso e spolverizzateli con lo zucchero semolato.
Scrollateli leggermente per eliminare lo zucchero in eccesso e il vostro pan de muerto messicano è pronto per essere gustato.

 

 

 

venerdì 20 ottobre 2023

Focaccia di Recco

La focaccia di Recco è una ricetta tipica della tradizione culinaria ligure semplicissima, sia per la preparazione sia per gli ingredienti.  La sua caratterista è quella di essere composta da due sfoglie sottilissime d’impasto non lievitato che racchiudono un delizioso e filante ripieno di Prescinsêua, una sorta di stracchino tipico della Liguria e del genovese in particolare.

Si ottiene così una focaccia molto croccante con un ripieno morbidissimo, quasi liquido.

Il contrasto che ne deriva è ciò che la rende inimitabile.

 

La storia

La ricerca storica che accompagna la documentazione storica per la richiesta di tutela europea narra che già ai tempi dei romani questo prodotto esisteva, Catone lo cita nel “De re rustica” come “scripilita cum caseo sine mille”; grazie alla storica Simonetta Duodo Valenziano si colloca il prodotto in Liguria all’epoca della terza crociata.

“Era la Pentecoste di rose dell’anno 1189… la cappella dell’Abbazia di San Fruttuoso accoglieva i crociati liguri per un solenne Te Deum prima della partenza della flotta per la Terra Santa… Sulle bianche tovaglie di lino ricamate facevano bella vista i piatti di peltro e di rame, zuppiere di ceramica e di coccio colme di ogni bendiio: pagnotte di farro ed orzo impastate con miele, fichi secchi e zibibbo, carpione di pesce, agliata, olive e una focaccia di semola ripiena di giuncata appena rappresa (la focaccia col formaggio)…”.

In seguito, la leggenda narra che la popolazione recchese si rifugiava nell’immediato entroterra per sfuggire alle incursioni dei saraceni e grazie alla possibilità di disporre di olio, formaggetta e farina, cuocendo la pasta ripiena di formaggio su una pietra d’ardesia coperta, venne “inventato” quel prodotto gastronomico che oggi conosciamo come “Focaccia di Recco col Formaggio”.

Sul finire del 1800, quando Recco contava circa 3.000 abitanti, ritroviamo la “Focaccia di Recco col Formaggio” nei cinque forni cittadini che campavano alla meglio vendendo esclusivamente le focacce liguri, uno di essi esiste ancor oggi (forno Moltedo). Alla fine, dell’800 aprono a Recco le prime trattorie con cucina, ed a quei tempi la “Focaccia col Formaggio” veniva proposta unicamente nel periodo di celebrazione dei morti.
Grazie all’intraprendenza di “rechelini doc” di allora, professionisti panificatori e ristoratori di oggi, “Manuelina, Vittorio, Vitturin, le famiglie Moltedo e Tossini fra i più conosciuti, la focaccia col formaggio vide il suo sviluppo commerciale e d’immagine. Con le loro abilità attirarono nelle osterie e nei forni recchesi il bel mondo d'inizio secolo diffondendo questo prodotto “principe” della gastronomia cittadina, (di quei tempi si ricorda che persino Guglielmo Marconi e l’Infanta di Spagna degustarono la focaccia col formaggio andando appositamente a Recco).
Le compagnie teatrali divennero clienti fissi perché dopo lo spettacolo in teatro, da Genova si trasferivano a Recco richiamati dal profumo ... e dall’ospitalità infinita di quegli “osti” recchesi che fin da allora fecero della loro arte naturale “del far da mangiare” una professione cresciuta poi nel tempo precorrendo i tempi e tenendo aperto fino a tarda notte i loro locali, tutto grazie a lei, la focaccia col formaggio che solo qui si trovava.
Durante l’ultimo conflitto mondiale Recco venne più volte rasa al suolo dai bombardamenti vedendo così annullate tutte le sue capacità di attrattiva turistica conservate nel tempo da altre vicine località balneari della riviera. Ciò nonostante, gli abitanti recchesi hanno dato estro alle proprie fantasie del “saper fare” creando da una tradizione quasi “leggendaria” un vero e proprio filone d’imprenditoria che ancora oggi risulta trainante.2000
Negli anni ‘50 arrivano i primi turisti e si inizia a comprendere che il futuro di Recco sarebbe stato basato su di loro, con particolare attenzione a quello che oggi viene ormai chiamato “Turismo di gola”. 2000
Nel 1955 nasce la prima festa della Focaccia di Recco col Formaggio promossa dai ristoratori e dai fornai dell’intera città. Nel frattempo, viene costruita, raggiungendo la Riviera di Levante, l’autostrada Genova-Livorno, e Recco, grazie all’apertura del casello autostradale, vede un incremento notevolissimo dell’afflusso turistico.
Sono gli anni in cui il boom economico accompagna il successo sempre crescente della gastronomia e della ristorazione recchese che attirava, come ancor oggi attira, personaggi del mondo dello spettacolo, politico e giornalistico, sempre in quegli anni, con i successi sportivi della famosa Pro Recco Pallanuoto, decretando alla propria città l’indiscusso titolo di “Capitale Gastronomica della Liguria”.

Fonte: Focaccia di Recco

 


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Ingredienti per 4 persone:

400 gr di farina 00

250 ml di acqua
500 gr di Prescinsêua o di stracchino
45 ml di olio extravergine d’oliva
10 gr di sale fino

Procedimento

Sciogliete il sale nell’acqua.

Setacciate la farina in una ciotola e versate lentamente l’acqua iniziando ad impastare.
Unite, poco alla volta, l’olio e continuate ad impastare fino inglobarlo tutto, quando si staccherà dalla ciotola, versatelo su di un piano di lavoro e lavoratelo fino ad ottenere un impasto morbido ed omogeneo.


Formate una palla e rimettetela nella ciotola, coprite con della pellicola e mettete in frigorifero per due o tre ore. Questo riposo farà sì che l’impasto sarà poi più malleabile per la stesura.


Trascorso il tempo riprendete la pasta e dividetela in due parti uguali.

Stendete due sfoglie molto sottili, io per facilitarmi il compito lo faccio su della carta da forno infarinata.

Stendete la prima sfoglia su tutta la superficie di una teglia ben oliata facendola sbordare leggermente, comprimete leggermente per eliminare l’aria,

Distribuire sopra la prescinsêua o lo stracchino a pezzettoni (io ho utilizzato quest’ultimo in quanto la prescinsêua è introvabile fuori Genova).

Prendete l’altra sfoglia e adagiatela sopra il formaggio.

Comprimete leggermente in modo da uniformare il tutto.


Eliminate la pasta in eccesso aiutandovi con un coltello affilato e dalla lama liscia.
 Chiudete bene il bordo e arrotolatelo leggermente.

Praticate dei piccoli fori con i rebbi di una forchetta e allargarli con le dita in modo da far fuoriuscire un pochino del formaggio, irrorate con un filo d’olio,

Infornate a 200° in forno statico per circa dieci/quindici minuti.
Estraetela dal forno e lasciatela riposare per circa dieci minuti prima di servirla posizionata su di un tagliere di legno.