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martedì 26 settembre 2023

L'albero del pane

“…..nelle montagne dove si raccoglie poco grano, si seccano le castagne su grate al fumo e poi si mondano e se ne fa farina che valentemente supplisce per farne pane.”

L’erbario novo” di Castore Durante (XVI° sec.)

LE IMMAGINI E I TESTI PUBBLICATI IN QUESTO SITO SONO DI PROPRIETA’ DELL’AUTORE E SONO PROTETTI DALLA LEGGE SUL DIRITTO D’AUTORE N. 633/1941 E SUCCESSIVE MODIFICHE. COPYRIGHT © 2010-2050. TUTTI I DIRITTI RISERVATI A IL POMODORO ROSSO DI MARIA ANTONIETTA GRASSI. VIETATA LA RIPRODUZIONE, ANCHE PARZIALE, DI TESTI O FOTO, SENZA AUTORIZZAZIONE.

Nelle dolci colline troviamo tutto il fascino dei castagneti, e in autunno, un tripudio di colori dalle calde tonalità rosso-aranciate che in inverno lasciano il posto allo splendore del bianco. I rami degli alberi si spogliano e rendono il paesaggio fatato, simile a un quadro di Dalì, permeato da un indefinibile mistero. Non sono solo belli da vedere questi castagneti, ma hanno sfamato intere generazioni e, nel corso degli anni, si è creata una vera e propria civiltà che ha prodotto tradizioni, sviluppato usi, tecniche agrarie e lavori fortemente legati a quest’albero.

Il castagno o “albero del pane” come fu definito da Senofonte nel IV secolo a.C. è originario dell’Asia Minore e della Grecia: si diffuse in Italia grazie agli Etruschi e cresce spontaneamente nella fascia climatica del Mediterraneo, dalla Turchia ai Balcani, alla penisola Iberica, sulle coste del Magreb, dall’Italia alla Francia. Furono gli ellenici i primi a sviluppare la coltivazione e a selezionare le varietà di castagne pur considerandole inizialmente come una sorta di ghianda. Utilizzavano questo nutriente frutto per preparate le pietanze più disparate, come il pane nero di Sparta, sfarinate, minestre. Greci, Ebrei e Fenici con i loro commerci le diffusero in tutto il bacino Mediterraneo.
Plinio racconta come i romani preparavano con la farina di castagne un pane particolare con cui si cibavano le donne durante le feste in onore di Cerere, periodo in cui era vietato per loro il consumo di cereali.
Apicio ci suggerisce invece di cucinarle nel tegame con aceto, miele, spezie ed erbe aromatiche, ma presso i latini erano prevalentemente cucinate sulla fiamma diretta, nel latte, o sotto la cenere.
Durante il Medioevo furono gli ordini monastici a sviluppare la coltivazione rimboscando aree pedemontane e perfezionando la conservazione delle castagne. Nacque così il mestiere di “castagnatores” svolto da contadini specializzati nella raccolta e nella lavorazione. Le castagne divennero così l’alimento principale per gli abitanti delle montagne e per questo motivo erano considerate un cibo plebeo, ma nel dodicesimo secolo s’iniziò a selezionare le qualità eccellenti, più grosse e preziose da destinare a un consumo elitario, i cosiddetti “marroni”.
Nel 1700 il marrone glassato (marrons glaces) raggiunse un grande successo presso i ceti più abbienti, talmente grande da giungere intatto fino a noi.
Dimenticati i giorni bui delle carestie e della fame, oggi, per fortuna, la castagna non ha più la funzione sostitutiva del pane ma ha assunto un ruolo voluttuario.
Questo frutto gustoso ben si presta a innumerevoli preparazioni, più o meno elaborate, ma è comunque il compagno ideale di un buon bicchiere di vino rosso da consumare nelle uggiose serate d’autunno e in quelle gelide d’inverno, magari seduti davanti all’allegro fiammeggiare di un camino in compagnia di amici con cui parlare dei tempi andati…

Autore: Maria Antonietta Grassi


Ed eccovi alcune ricette presenti nel blog, cliccate sul nome per leggere la ricetta:

Castagne al lardo

Fettuccine di castagne con porri salsiccia e provolone

Spaghetti di farro con castagne e pancetta

Zuppa di farro e castagne

Involtini di verza salsiccia e castagne

Castagnaccio toscano

Charlotte di marroni e mascarpone

Cheesecake alla confettura di castagne

Torta morbida di castagne e cioccolato 


martedì 12 settembre 2023

La storia del vino- Da Noè ai giorni nostri

Vino deriva dalla parola sanscrita “vena” formata dalla radice ven (amare), la stessa della parola Venus, Venere. Il vino è dunque, da sempre, legato all’amore, alla convivialità, alla gioia di vivere, alla cristianità, parte integrante del rito della Messa. Esso rilassa il corpo e la mente, ci inebria e ci predispone allo scambio con l’altro.
L’origine del vino si perde nella notte dei tempi ed è un po’ la storia dell’umanità, c’è chi, addirittura, fa risalire l’origine della vite sino a Adamo ed Eva, ipotizzando che il frutto proibito del Paradiso terrestre non fosse la mela ma l’uva: la Bibbia, nella Genesi, ci racconta che Noè salvò la vite dal diluvio universale portandola al sicuro sulla sua arca e che, terminato il diluvio, la piantò ottenendo una vigna e si ubriacò del suo vino.
Questo ci fornisce testimonianza di come, in Oriente, in epoca prediluviana, fossero già conosciute le tecniche enologiche. In effetti le prime tracce della coltivazione della vite si trovano in Asia Minore, nelle terre tra il Tigri e L’Eufrate: gli egiziani furono maestri e profondi conoscitori della pratica enologica, con la puntigliosità e la precisione che li distingueva, annotarono tutte le fasi del processo produttivo, dal lavoro nella vigna, alla conservazione. Con i geroglifici ci lasciarono numerose e dettagliate testimonianze su come si produceva il vino dei faraoni.

Essi furono dei grandi viticoltori e bevitori, Erodoto li descrive dettagliatamente mentre festeggiano il plenilunio in preda all’ubriachezza. I vini erano per lo più rossi e venivano conservati in anfore su cui il produttore apponeva un sigillo con l’anno della vendemmia, un marchio d.o.c. ante litteram.
Grazie ai Fenici e ai Greci il vino giunse in Italia e in Francia.




Furono i Greci a perfezionare i metodi di vinificazione e l’ubriachezza assunse un carattere sacrale al punto che nell’Olimpo fu assegnato un posto importante a Dioniso, figlio di Zeus, dio del vino. Dalla Grecia all’Italia il passo fu breve. In Italia, allora chiamata Enotria cioè terra della vite, fiorì la civiltà del vino. Nelle colonie greche in Calabria, a Sibari, fu addirittura costruito un enodotto di argilla che convogliava il vino verso il porto dove era imbarcato. La produzione e il consumo del vino passarono dai Greci ai Romani che la diffusero in tutte le province dell’Impero Romano fino a raggiungere l’Europa settentrionale.

 

Anfore romane per il trasporto del vino

Fonte: Museo Navale Romano - Albenga

I romani erano a conoscenza delle proprietà battericida del vino (come dimostrò nel 1866 L. Pasteur nel suo scritto Etudes sur le vin in cui scrive “il vino è la più salutare ed igienica di tutte le bevande”) e lo portavano nelle loro campagne militari come bevanda dei legionari. Tuttavia, il vino di Roma aveva poco a che vedere con quello che oggi conosciamo: i Romani lo bollivano per conservarlo meglio e così lo trasformavano in un denso liquido dolciastro di alta gradazione e lo allungavano con l’acqua (da qui il verbo mescere, in latino mescere significa mescolare), talvolta con quella di mare per renderlo meno acido. Le mense dei patrizi avevano un esperto che decideva le percentuali di vino e acqua da mischiare. Era molto gradito anche il “mulsum” (vino con il miele) ed era normale speziare e addolcire il vino con zucchero di canna, pepe, resina, sale, cannella, aloe e sambuco.

Era conservato in otri di terracotta rivestiti di pece e tenuti vicino alle canne fumarie. Questo nettare di Bacco era riservato solo agli uomini e il consumo era rigorosamente vietato alle donne. Anche i romani amarono a tal punto questa bevanda da assegnargli un dio: Bacco.
Nel frattempo, ci fu un’invenzione, da parte dei Galli, che rivoluzionò per sempre la conservazione del vino: la botte. I romani iniziarono quindi a utilizzare barili di legno, introducendo ed enfatizzando il concetto di “invecchiamento” e “annata”. Dal secondo secolo si cominciò a dare importanza alla coltivazione della vite nella Loira, nella Borgogna e nella Champagne.
Il declino dell’Impero Romano e la nascita del Cristianesimo segnarono l’inizio di un periodo controverso per il vino, da un lato esso era accusato dalla Chiesa di portare ebbrezza e perdizione, dall’altro i monaci benedettini non solo tennero in vita la cultura del vino, ma le diedero nuova linfa: produrre quella prelibata bevanda, utilizzata nel rito della Santa Messa, equivaleva a diffondere il messaggio di Dio. Nei campi di abbazie, monasteri e chiese si coltivava la vite. Furono i monaci a sperimentare nuovi uvaggi e tecniche innovative (fu un benedettino italiano a inventare il metodo della rifermentazione in bottiglia, poi ripreso da Dom Pérignon, l’inventore dello champagne).  Un ulteriore impulso al tentativo di produrre vini di alta qualità, specialmente in Borgogna, fu dato da Bernardo, ex monaco benedettino che, nel 1112, fondò l’ordine dei Cistercensi.
Contemporaneamente, nel bacino del Mediterraneo, la diffusione dell’Islamismo, tra l’Ottocento e il millequattrocento d.C., mise al bando la viticoltura in tutti i paesi conquistati.
Nel Rinascimento si torna a dare al vino il suo ruolo di protagonista della cultura occidentale, i mercanti inglesi, olandesi e veneziani trasportavano via mare ettolitri di vino, mentre i grandi Chateaux di Bordeaux iniziarono a produrre i grandi vini di pregio che conquisteranno la fama.


I conquistadores, nel Nuovo Mondo appena scoperto, scoprirono che il vino sopportava male la traversata e portarono con sé le talee di viti europee, per impiantarle sul suolo americano.
Il Settecento fu la vera epoca d’oro per il vino: l’arrivo della cioccolata dall’America, del caffè dall’Arabia, del tè dalla Cina e la diffusione della birra e dei distillati, indussero i produttori a cercare una qualità migliore per competere con le nuove bevande e questa necessità diede grande impulso alla sua conoscenza e alla ricerca di nuove tecniche di produzione. Fu inventato l’imbottigliamento con il tappo di sughero che sostituì i piccoli legni avvolti da stracci imbevuti nell’olio o legati da una colta di cera utilizzati fino ad allora per tappare le bottiglie; fu messa a punto la tecnica Champenois, si studiarono i lieviti e gli zolfi e si inventarono i torchi.
La Francia divenne la padrona assoluta e incontrastata dei grandi vini di Bordeaux e della Champagne che esportava in tutto il mondo. Fu in questo periodo che, sbarcato dal Nuovo Continente, con un battello a vapore, si diffuse un pericoloso nemico della vite: la filossera. Quest’afide micidiale divorerà le vigne europee per quarant’anni causando danni enormi, solo nel 1910, si riuscì a sconfiggerlo grazie all’intuizione di un francese che innestò le viti europee su quelle americane che ne erano immuni. Solo in poche zone esistono ancora dei vigneti che resistettero all’attacco dell’afide e si chiamano “franchi di piede”. In Italia possiamo trovarli in Alta Val d’Aosta (Blanc de Morgex), nell’area flegrea in Campania e ai piedi dell’Etna in Sicilia.
Nel diciannovesimo secolo si consolidò la posizione del vino nella civiltà occidentale, alla tradizione contadina si affiancarono studiosi che si adoperarono per la realizzazione di vini di maggiore qualità.
Ai nostri giorni, questa deliziosa bevanda è molto conosciuta e consumata in tutto il mondo. L’Italia è un paese eccezionalmente vocato alla viticoltura (ricordiamoci che i Greci la chiamarono Enotria, terra del vino) ma, questa vocazione, non è mai stata sfruttata appieno: fortunatamente, da qualche anno, parecchi produttori italiani lavorano sulla qualità, sulla bassa resa per ettaro e sull’applicazione di criteri scientifici in fase di vinificazione e questo consente la produzione di ottimi vini che nulla hanno da invidiare ai grandi vini francesi e, anche tra i consumatori, si va diffondendo la cultura del vino che trasforma un “bevitore” in un “degustatore” consapevole che il buon vino è un’opera d’arte, è il nettare degli dei!

Arianna e Bacco – Tiziano

 

CANZONA DI BACCO

Lorenzo De’ Medici

 

Quant'è bella giovinezza,
      che si fugge tuttavia!
      Chi vuol esser lieto, sia:
      di doman non c'è certezza.

    Quest'è Bacco e Arianna,
      belli, e l'un de l'altro ardenti:
      perché 'l tempo fugge e inganna,
      sempre insieme stan contenti.
      Queste ninfe ed altre genti
  sono allegre tuttavia.
      Chi vuol esser lieto, sia:
      di doman non c'è certezza.

      Questi lieti satiretti,
      delle ninfe innamorati,
  per caverne e per boschetti
      han lor posto cento agguati;
      or da Bacco riscaldati,
      ballon, salton tuttavia.
      Chi vuol esser lieto, sia:
  di doman non c'è certezza………

 

 Bibliografia: Enoteca Italiana – Tutto Vino- Giunti Demetra Editore

Autore: Maria Antonietta Grassi

Se vi è piaciuto il mio articolo e volete leggere anche quello che descrive le varie vinificazioni cliccate qui

 

 

 

 

martedì 5 settembre 2023

Dal grappolo al vino



LE IMMAGINI E I TESTI PUBBLICATI IN QUESTO SITO SONO DI PROPRIETA’ DELL’AUTORE E SONO PROTETTI DALLA LEGGE SUL DIRITTO D’AUTORE N. 633/1941 E SUCCESSIVE MODIFICHE. COPYRIGHT © 2010-2050. TUTTI I DIRITTI RISERVATI A IL POMODORO ROSSO DI MARIA ANTONIETTA GRASSI. VIETATA LA RIPRODUZIONE, ANCHE PARZIALE, DI TESTI O FOTO, SENZA AUTORIZZAZIONE.


Vino deriva dalla parola sanscrita “vena” formata dalla radice ven (amare), la stessa della parola Venus, Venere. Il vino è dunque, da sempre, legato all’amore, alla convivialità, alla gioia di vivere, alla cristianità, parte integrante del rito della Messa. Esso rilassa il corpo e la mente, ci inebria e ci predispone allo scambio con l’altro.
L’origine del vino si perde nella notte dei tempi ed è un po’ la storia dell’umanità, c’è chi, addirittura, fa risalire l’origine della vite sino ad Adamo ed Eva, ipotizzando che il frutto proibito del Paradiso terrestre non fosse la mela ma l’uva: la Bibbia, nella Genesi, ci racconta che Noè salvò la vite dal diluvio universale portandola al sicuro sulla sua arca e che, terminato il diluvio, la piantò ottenendo una vigna e si ubriacò del suo vino.
Il Piemonte è terra di nobili vini su cui sono stati scritti trattati ed enciclopedie: ad essi sono stati dedicati musei, itinerari, scuole di alta specializzazione e quant’altro.
Quando si pensa ai pregiati vini piemontesi non si può fare a meno di pensare alle colline su cui crescono vigneti stupendi, con i tipici caldi colori autunnali, non solo belli da vedere per le loro armoniose geometrie, ma oggi ancor più importanti per un’economia agricola sempre più radicata ed efficace.


Ogni grappolo racconta il miracolo delle stagioni, del sole, della pioggia, di un lavoro che ha mille sfumature da percepire. Questa è la fantastica magia di un popolo di lavoratori che ha fatto di quel vino un miracolo, un miracolo che vede nella vendemmia la sua sublimazione quando il grappolo abbandona la vigna e va a riposare nel legno. Nel riposo si determinerà la grande annata che arriva da una terra speciale dove un gruppo di agricoltori, lavorando insieme, hanno dato dignità al vino. Questa piccola storia, quasi una favola, ha fatto si che molti agricoltori del passato non abbandonassero il loro podere, quella grande idea, quell’attaccamento al territorio, ha garantito il decoro, ha dato lustro e grandezza al lavoro di questi campi e di queste colline. Oggi quelle uve, quel vino sono diventati un simbolo dell’Italianità nel mondo e quella cantina un punto di riferimento culturale per un piccolo mondo antico che conserva gelosamente il passato e dona alla modernità un emblema.
A inizio ottobre, quando gli acini sono gonfi e dolci, inizia un rito molto importante, che ha un fascino arcaico e magico: la vendemmia.
Inizia così la trasformazione dell’uva che diventerà quel nettare che tutti conosciamo con il nome di vino.


I grappoli vanno raccolti manualmente prestando molta attenzione al trasporto: l’uva deve arrivare integra e asciutta per poter poi procedere immediatamente alla “
diraspatura” (separare l’uva dai raspi) e alla pigiatura.


Incomincia quindi la
fermentazione, cioè quel processo che porterà l’uva a trasformarsi in vino.


Antico spremi grappoli


Mosto
La vinificazione avviene grazie ai lieviti che si trovano sulle bucce degli acini e che trasformano gli zuccheri dell’uva in alcol etilico (fermentazione alcolica) e, spesso, per ottenere dei vini di alta qualità, sono aggiunti al mosto dei lieviti selezionati.

Ogni tipologia di vino (rosso, bianco, rosato) seguirà un suo percorso di vinificazione, vediamo in cosa consiste:

 

Vinificazione in rosso

Il processo della vinificazione in rosso inizia togliendo subito il raspo per evitare che trasmettano troppi tannini che diluirebbero il colore, al contrario, a questo scopo, sono lasciati le bucce e i semi (vinaccioli) che donano al vino il colore rosso. Più tempo le bucce restano a contatto con il mosto, più forte sarà l’intensità del colore. Di solito questo tempo oscilla tra i 4/5 giorni per i rossi più leggeri, fino ad arrivare a un massimo di un mese per i grandi rossi (Barolo, Brunello, Barbaresco) ricchi di tannini, da far invecchiare.

Concluso questo processo, seguito scrupolosamente con continui rimontaggi, cioè con apporti di ossigeno al mosto per consentire ai lieviti di moltiplicarsi e impedire così arresti di fermentazione, si procede alla “svinatura”.
Si tolgono dal mosto le parti solide, cioè le vinacce, e sono torchiate per estrarre il vino che contengono; si tratta di un vino di torchio, molto ricco di colore e di tannini che è vinificato a parte e aggiunto al vino fiore per dargli spessore.
Il mosto è quindi travasato in contenitori d’acciaio, dove continua una fermentazione lenta, alla quale fa seguito una seconda fermentazione detta malolattica innescata dai batteri e non dai lieviti come nella fermentazione alcolica.


A questo punto il vino comincia il suo
processo di maturazione: il colore acquista tonalità meno vive e più calde, il sapore diventa pieno e rotondo.
Dopo la maturazione, per i vini adatti, segue la fase d’invecchiamento in grandi botti o in piccoli fusti di rovere (barriques, fusti di legno di quercia da 225 litri) che conferiscono al prodotto aroma di spezie e legno.

La durata di questo riposo sarà definita dal tipo di vino e dai suoi disciplinari: due anni o più per ottenere il titolo “riserva”.

L’invecchiamento continuerà nelle bottiglie perché l’ambiente privo di ossigeno porterà il vino al suo equilibrio ottimale.

Vinificazione in bianco

La vinificazione in bianco differisce da quella in rosso perché le parti solide dell’uva non devono rimanere a macerare con il mosto, vanno quindi separate immediatamente utilizzando delle apposite pigiatrici, con membrane a camera d’aria, che comprimo l’uva con molta delicatezza e consentono alle parti solide di non cadere nella vasca insieme al mosto. Le vinacce sono torchiate subito e il risultato della torchiatura può essere aggiunto, in parte o tutto, al mosto. Questo mosto, quasi privo si tannini, è particolarmente delicato e necessita di molte attenzioni.

Per ottenere un vino bianco fruttato, da bere giovane, è opportuno farlo fermentare in un tank di acciaio a 18°C: se, al contrario, vogliamo un vino da invecchiamento, bisogna farlo fermentare in botti di legno o barriques. In questo modo il vino trarrà dal legno i tannini necessari alla sua durata e conservazione.


Vinificazione in rosato

I vini rosati si ottengono vinificando in bianco le uve a bacca rossa; il mosto è mantenuto pochissimo a contatto con le vinacce (24/36 ore), quindi si svina e si fa fermentare il mosto a bassa temperatura, esattamente come per i bianchi.

I vini rosati, freschi e fragranti, devono essere consumati entro un anno dalla loro produzione.


Vino Novello

Si tratta in un vino fresco e profumato, deve il suo nome al fatto che è prodotto subito dopo la vendemmia e non è assolutamente adatto all’invecchiamento.

Per ottenerlo si utilizza la tecnica della macerazione carbonica, in altre parole, l’uva non pigiata è messa, tutta intera (raspi compresi), per 7/9 giorni, in serbatoi privati dell’aria mediante l’immissione di anidride carbonica, questo fa sì che i lieviti migrino dalla buccia alla polpa in cerca di ossigeno e acqua, dando così inizio a un processo di fermentazione.
Si procede poi alla vinificazione in rosso, con una pigiatura leggera e un’altra fermentazione di 3-4 giorni. Il vino ottenuto è leggero e dal sapore molto simile al chicco d’uva. Non può essere commercializzato prima del 6 novembre e il termine ultimo per l’imbottigliamento è il 31 dicembre dello stesso anno della vendemmia.


Autore: Maria Antonietta Grassi

 

 

Bibliografia: Enoteca Italiana – Tutto Vino- Giunti Demetra Editore

 

 

 

 

 

lunedì 10 agosto 2020

Frantoio Rosciano



Nel 1983 Sandra Rosciano e Mario Richero, rilevano un antico frantoio nel paese di Toirano (SV) affascinati da questa secolare attività, risalente all’epoca dei primi “ 900 ”, ed è esattamente da allora che io compro il loro splendido olio e tutti gli altri prodotti biologici, dalle salse tipiche liguri ai prodotti cosmetici derivati sempre dall'olio. 
Vi assicuro che è il miglior olio in assoluto che io abbia mai gustato. Dolce e senza retrogusto acido che fa "pizzicare" la gola come spesso capita con altri oli. Prodotto esclusivamente con olive liguri e spremute a freddo. Racchiude in sé tutto il calore, il colore,  il gusto, il profumo della Liguria.
Nel ’84 il negozio di vendita va ad affiancare il frantoio, che si può visitare in qualsiasi periodo dell’anno ( ma da novembre a marzo è interessante vedere la spremitura a freddo delle olive Taggiasca, Olivotto, Colombara, Frantoiana e Carparina: questo tipo di spremitura mantiene inalterate le qualità organolettiche degli oli ).
Nel ’94, negozio e frantoio trovano una nuova locazione più ampia ed accogliente, con parcheggio e facilmente raggiungibile all’entrata sud del paese e a soli 2 chilometri dalla nuova uscita autostradale di Borghetto
S. Spirito
Grazie alla nuova ubicazione è stato possibile anche modernizzare il processo di spremitura utilizzando moderni macchinari permettendo cosi di facilitare le operazioni di molitura, e di ricavare un prodotto più consono alle aspettative dei clienti.



Oltre all’extravergine e all’olio di oliva, si possono trovare molti altri tipi di prodotti tipici artigianali, senza conservanti e biologici come: salse da condimento ( dal pesto, paté d’oliva nero e verde, salsa di noci ecc…) delicatezze sott’olio ( pomodori, olive, funghi, tranci di tonno ecc…).
Non mancano anche il miele, i vini, polpa di frutta, e i dolci tipici della vallata come il torrone morbido di Toirano. Inoltre prodotti cosmetici all’olio di oliva testati e confezionati con il marchio dell’azienda.
È possibile con questi prodotti realizzare fantastiche confezioni regalo abbellendole con ceramiche dipinte a mano, con disegni che rappresentano alcuni luoghi di Toirano.


Il frantoio si trova nel comune di Toirano, noto borgo, antico e storico, della val Varatella, ( a 3 km dal mare ), rinomato per le sue famosissime grotte, aperte al pubblico tutto l’anno.
Il centro storico abbellito e ristrutturato, nel corso degli ultimi anni, ove nel mese di Agosto si svolge la caratteristica festa di Gumbi ( frantoi ).
Il bellissimo ed attrezzatissimo museo etnografico della civiltà contadina, allestito nel vecchio palazzo del Marchese completamente ristrutturato con adiacente il parco ove vengono svolte numerose manifestazioni culturali e culinarie del paese.




Visitate il loro sito cliccando qui , troverete tutte le meravigliose specialità che possono offrirvi.
  


Per sapere come raggiungerli cliccate qui

Frantoio Rosciano
Via Provinciale 1/A - Toirano (SV)- Italia
Tel. 0182-98204
Fax 0182- 596041
sito: www.frantoiorosciano.it

sabato 8 dicembre 2018

Il galateo a tavola : ovvero come comportarsi correttamente

Questo articolo è il primo di una serie che tratterà i seguenti argomenti:
Comportamento da tenere a tavola





Comportamento da tenere a tavola

“A tavola non si invecchia”:  ai nostri giorni questo aforisma e più vero che in passato, ma in modo diverso,  perché adesso non è possibile invecchiare a tavola  per il semplice motivo che ci si sta pochissimo. La frenesia della vita odierna ci fa quasi considerare i pasti una perdita di tempo e spesso, presi dai ritmi veloci, dimentichiamo anche le norme basilari della buona educazione scritte nel Galateo. Il Galateo è un codice che stabilisce le regole di base per un buon comportamento sociale e convenzionale.  Fu scritto da monsignor Giovanni della Casa e  fu pubblicato nel 1558, il titolo originale era “Galateo overo de’ costumi”. Vediamo ora quali sono le regole di base del Galateo relative al comportamento a tavola. Prima di sedersi a tavola è opportuno lavarsi le mani. Normalmente quando si è ospiti in casa di qualcuno si dovrebbe arrivare con le mani pulite, ma in casi particolari si può chiedere il permesso di andare a lavarsele. Ci si deve sedere a una giusta distanza dalla tavola, né troppo lontani né troppo vicini,  si sta seduti  con il busto eretto, rilassati e si porta  il cibo alla bocca alzando il braccio. Non si devono appoggiare i gomiti sul tavolo, ma tenerli lungo i fianchi. Sul tavolo si appoggiano solo i polsi e le mani, anche mentre si usano le posate i gomiti non devono discostarsi dal busto.Non si allungano le gambe sotto la tavola. Il tovagliolo si spiega a metà e lo si tiene sulle ginocchia. Mai e poi mai va legato intorno al collo o, peggio, infilato nel colletto della camicia. Alla fine del pasto non lo si ripiega, ma lo si appoggia alla sinistra del piatto.
Prima di iniziare a mangiare si attende che tutti i commensali siano serviti e che la padrona di casa incominci  a mangiare. E’ consentito incominciare solo nel caso in cui la padrona  inviti a farlo per non far raffreddare il cibo. Gli alimenti non vanno toccati con le mani, tranne che per il pane che non va portato alla bocca così com’è ma lo si spezza  con la destra tenendolo con la sinistra. Se ne stacca un boccone per volta man a mano che lo si mangia, così come i grissini. Non s’intinge  il pane per fare la classica “scarpetta”. Il cibo che si trova nel piatto non va tagliato a pezzetti, ma un boccone per volta man mano che lo si mangia. La masticazione deve passare del tutto inosservata, per cui si mastica a bocca chiusa, non si parla con la bocca piena, si fanno piccoli bocconi e non si beve mentre il cibo è ancora in bocca.
Non si soffia sul cibo per raffreddarlo. Fare pubblicamente uso degli stecchini è riprovevole, perciò non dovrebbero neanche comparire a tavola, giocherellare con lo stecchino, spostarlo da una parte all’altra della bocca, sono tutti gesti che non sono  piacevoli da vedere. Se ci si serve da soli il vino e l’acqua è opportuno non riempire il bicchiere e ci si deve preoccupare di versarne  anche ai propri vicini. Non si beve mai in un solo sorso tutto il contenuto del bicchiere, non lo si regge con due mani.I bicchieri a calice si prendono non al gambo ma sotto la coppa, quelli normali si tengono in mano dalla metà in giù. Non si scalda il bicchiere tra le mani per aumentare la virtù del vino rosso.In caso di brindisi tutti devono bere, o almeno fare l’atto di bere accostando il bicchiere alle labbra.
Per fare il brindisi si solleva il bicchiere all’altezza del viso stendendo un attimo il braccio nella direzione del festeggiato. Non si fa il giro per andare a toccare il bicchiere d’ognuno. Le posate si tengono dalla parte alta del manico e si muovono con gesti misurati sul piatto e dal piatto alla bocca, facendo il meno rumore possibile.
Il cucchiaio lo si tiene tra il pollice e l’indice; le altre tre dita stanno unite e un po’ ripiegate verso il palmo. Va usato solo per le minestre , lo si riempie a metà, non se ne succhia o aspira il contenuto, non lo si lecca. Il consommé servito nella tazza con i manici va bevuto direttamente da essa. Il cucchiaio servirà solo per mescolare. Finito di mangiare il cucchiaio va riposto nel piatto perpendicolare alla persona.
Il coltello non va mai portato alla bocca. Non si tagliano mai col coltello: il pesce, le uova, le frittate, gli sformati, le verdure e i farinacei in genere, tranne le torte, sia dolci o salate, a crosta secca.
Per il pesce esiste l’apposito coltello, in mancanza di esso, ci si serve della sola forchetta, aiutandosi con un pezzetto di pane. La forchetta si tiene tra  il pollice e l’indice con la mano destra.
Quando con la destra si usa il coltello per tagliare, la forchetta si tiene nella sinistra con in rebbi in giù e con essa si prende il boccone tagliato per portarlo alla bocca , senza rigirare i rebbi all’insù e senza posare il coltello per passare la forchetta nella destra. Nel tagliare della carne con sugo non si trascina il boccone di carne per impregnarlo di sugo, ma questo si applica in modica quantità sul boccone aiutandosi con la punta del coltello. Tra un boccone a l’altro, se si sospende di mangiare o si attende di essere di nuovo serviti, le posate si posano sul piatto: forchetta e coltello a contatto di punte, e manici leggermente divaricati.

PAUSA DURANTE ILPRANZO


Se non si desidera mangiare altro, e al termine di ogni portata forchetta e coltello si posano paralleli sul piatto.


FINE PASTO

Ossicini e lische che ci si trovi in bocca non si depongono sul piatto con le mani, si fanno scivolare sulla forchetta e da questa nel piatto, in un angolo.
Ci si serve dal piatto di portata con le apposite posate e non si deve usare la propria forchetta per servirsi ancora.
Se qualche portata richiede la  presenza delle coppette lavadita, non vi si immerge l amano, ma solo la punta delle dita e ci si asciuga con il tovagliolo.
Non si fuma a tavola tra una portata e l’altra. Solo a pasto terminato e chiedendo il consenso degli altri commensali è possibile fumare.
Ci si alza da tavola solo a pasto concluso e dopo la padrona di casa.

Autore: Maria Antonietta Grassi